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Paure cattive e paure buone

Questa volta le “due parole” non sono mie. Nelle circostanze di crisi di questi giorni le prendo a prestito da una frase che Franklin D. Roosevelt pronunciò il 4 marzo 1933. Sono dedicate alle paure e a come vincerle:  “L'unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Gli Stati Uniti in quel periodo affrontarono una grande crisi economica. Soffrivano della paura più terribile: la paura della povertà, della disoccupazione, di non poter mantenere la propria famiglia. La Grande Depressione: una depressione dell'economia, ma soprattutto una depressione dell'anima.

La paura diventa tangibile. Si vede, si respira, si tocca. Imprigiona e paralizza. È questa la paura che fa paura a Roosevelt, perché è l'unica paura che non lascia scampo e da cui non c'è salvezza. Roosevelt non commise nessuno degli errori che è possibile compiere in questi casi. Primo: ripetere ossessivamente che non bisogna avere paura perché non è successo nulla, andando così contro l'evidenza. Gli americani avevano le loro buone ragioni per aver paura, ma era necessaria una pausa, tirare un respiro profondo e unire le energie per uscirne. Buona è la paura che induce a usare prudenza per evitare il peggio; cattiva è la paura che ti paralizza, esponendoti fatalmente al peggio.

Secondo possibile errore: cavalcare la paura, perfino alimentarla, indirizzandola nella direzione più conveniente per me, il mio partito, la mia lobby, gli interessi miei e dei miei amici. La paura, se ben manipolata, può essere redditizia. Gli individui impauriti sono più facilmente controllabili perché la paura genera incertezza.

È necessario agitare paure inesistenti? No. La Grande Depressione fu un fatto reale e concreto, ma se il pessimismo avesse prevalso, travolgendo tutto e affogando gli americani nelle paure, forse nessun New Deal sarebbe stato possibile.

Luciano Galimberti
Presidente ADI