Negli anni Sessanta succede che un manipolo di eroi colti appassionati visionari si inventano cose strane e astruse che scandalizzano l’opinione pubblica come già successo e visto in passato nelle rivoluzioni nel mondo dell’arte, della moda, dell’arredamento, delle arti visive.
Tra questi un tappezziere 'sovversivo' e reazionario di Bologna convince un architetto milanese – che stava già realizzando case operaie per Adriano Olivetti - a progettargli una poltrona...
Cerca di portarla in Triennale nel 1957, ma lo cacciano: lui – tappezziere senza titoli – non può entrare in quel luogo di cultura, il furgone viene allontanato…
Allora lui prende quella poltrona, se la mette in testa, quasi per nascondersi il viso da tappezziere, entra noncurante dall'ingresso principale nel Salone d’Onore e l'abbandona lì… Dopo quel gesto reazionario la gente 'che conta' si accorge di lui e nasce Digamma di Ignazio Gardella, il primo pezzo della nuova avventura di Dino Gavina.
Non puoi affermare di conoscere la storia del design italiano se non l'hai conosciuto e non ne conosci il suo vero colore e le sue sfumature, se non l'hai incontrato personalmente in carne e ossa nelle sue affabulazioni almeno per un’intera giornata.
Lui è figlio adottivo di Carlo Scarpa e padre putativo di Tobia, lui formato dal padre al vero verbo, lo trasferisce al figlio aggiungendovi la concretezza commerciale del prodotto, che lui conosceva bene. Ma più che di concretezza si tratta di “una filosofia Gavina”, che lui non conosceva alla lettera perché intuitivo e spontaneo e non teorico, ma che magicamente rispettava senza sbandamenti… Dalle loro otto mani, Afra Bianchin compresa, nascevano i pezzi più importanti della nostra storia, ancora oggi i più belli oltre cinquant’anni dopo: Bastiano, Vanessa, Pigreco, Nuvola, Fiordiloto ecc…
Gavina aveva solo certezze, mai dubbi, e te le spiattellava in modo semplice mettendoti in soggezione: lui piccolo e magro, segaligno, tutto igiene anche nel mangiare, ti sovrastava sempre, qualunque fosse la tua statura.
La sua interiorità si manifestava a ogni parola, a ogni sguardo, senza esitazioni, con naturalezza, i suoi occhi erano luci sempre accese per ferirti quando lo riteneva giusto, per coccolarti le poche volte che approvava quello che dicevi. Il suo metodo era riprovarti, correggerti, stimolarti, più che confortarti.
Lui era uomo di intuizioni, capiva bene le persone che gli stavano di fronte e ne otteneva il meglio anche magari per scaricarle a 'spremitura' avvenuta.
Aveva lo sguardo di fierezza dei condottieri di un tempo, ti guidava sulle strade difficili e ti diceva come fare senza parole, con i gesti. Lui ti inventa Marcel Breuer, Man Ray, Sebastian Matta e tanti altri quando nessuno li conosceva e dava vita a un mondo poi spesso utilizzato a sproposito nella storia del mobile, e raramente a proposito da altri, pur facendo affari ancora oggi prima che cultura.
Gavina era unico ma quando il suo papà Scarpa muore (1978) lui si affeziona morbosamente a Tobia, il figlio putativo, quasi con disperazione. Ma i giochi sono finiti e lui se la prende con la vita, con il mondo, amareggiato di trovarsi spesso immeritatamente troppo solo…
Ho parlato spesso di Dino Gavina il mio primo maestro che ti 'ingavinava' tanto erano forti la sua personalità e le sue certezze! L'ho frequentato come discepolo e poi 'quasi collega' e 'quasi amico', certamente molto spesso suo complice e succubo fino alla sua morte e al suo funerale tristissimo, perché in fondo non aveva avuto tutto quanto avrebbe meritato! Era scomodo perché diceva troppo spesso le verità senza mezzi termini e al suo ultimo atto mentre ancora suonavano le campane a morto venivano distribuiti i suoi biglietti da visita: "Dino Gavina sovversivo!"
Ho molto imparato da lui e mi piace molto raccontare verità e non frasi di convenienza come i più fanno...
Ora, a dieci anni da quelle campane a morto, un saluto di rispetto a Dino Gavina, indimenticabile e imprescindibile uomo di progetti veri, meritatamente eterni!
Enrico Baleri